La sentenza su Mannino Dai pm accuse fumose "Ciancimino un ciarlatano"

















«Assolto per non avere commesso il fatto».

Era il 4 novembre di un anno fa quando Il gup Marina Petruzzella ha scagionato - dopo un’ora di camera di consiglio e due anni e mezzo di processo - Calogero Mannino dall’accusa di aver avviato all’inizio del 1992 la trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici di Cosa nostra.
La procura di Palermo per l’ex ministro Dc aveva chiesto una condanna a 9 anni per il reato di “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario” previsto dall’articolo 338 del codice penale. 
Il primo verdetto per l’inchiesta Stato-Mafia si rifà alla formula dell'articolo 530 comma secondo del codice di procedura penale, che si applica quando la prova "manca, è insufficiente o è contraddittoria". In sostanza la vecchia assoluzione per insufficienza di prove.

Calogero Mannino aveva chiesto il giudizio con rito abbreviato mentre in Corte di assise sono ancora imputati gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza), l’ex parlamentare di Forza Italia Marcello Dell’Utri, ma anche i boss Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Fra gli imputati c’è anche il pentito Giovanni Brusca.
Secondo l’accusa, temendo per la sua incolumità, grazie ai suoi rapporti con l'ex capo del ros Antonio Subranni, nel '92, l’ex ministro avrebbe fatto pressioni sui carabinieri perché avviassero un "dialogo" con i clan. In cambio lui si sarebbe impegnato per garantire un'attenuazione della normativa del carcere duro. 

A quasi un anno esatto ecco il dispositivo della sentenza (contro cui i pm potranno fare un ricorso) .
Il gup Marina Petruzzella, in oltre 500 pagine, parla di prove "inadeguate", di "suggestiva circolarità probatoria”, di “interpretazioni indimostrate”. In particolare "Nulla nelle fonti orali o documentali che dimostri - scrive il giudice - il collegamento tra l'iniziativa dei Ros di interloquire con Vito Ciancimino e l'evento ipotizzato dall'accusa di un accordo tra Mannino e Cosa nostra”.
Particolarmente pesanti le valutazioni su uno dei principali testimoni del processo, Massimo Ciancimino. Le sue dichiarazioni vengono considerate come "farraginose", la copia del papello che ha consegnato, "una grossolana manipolazione”. In sostanza incredibile e inattendibile come ha più volte dimostrato.
Insomma il giudice parla di "elementi di sospetto, che non hanno alcuna grave e autonoma natura indiziaria" e che tali connotati possono prestarsi ad interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fin dei conti prive di specifico valore dimostrativo processuale"

"Lo Spirito Santo ha illuminato un giudice che ha trovato non solo la forza per comprendere, discernere i documenti, le requisitorie, le arringhe e le mie personali dichiarazioni, ha trovato il coraggio di resistere alle pressioni ambientali, perché questo processo nasce da una voglia di alcuni pubblici ministeri, non della Procura della Repubblica di Palermo, che ostinatamente hanno elaborato la dottrina della trattativa senza elaborare gli avvenimenti".
Così Mannino, al momento dell’assoluzione, aveva accusato apertamente i pm Teresi e Di Matteo di persecuzione giudiziaria e Ingroia (rifuggiatosi poi con scarsa fortuna in politica). 

Adesso, che il dispositivo della sentenza è pubblico, le ragioni di Mannino appaiono ancor più evidenti, ma chissà se basteranno a placare l’ira persecutoria di alcune toghe che, non contente di avergli distrutto l’esistenza politica, vogliono continuare a rovinargli gli ultimi anni di vita. 

Ma l’ex potente dc che ha saputo superare persecuzioni e malattie, danneggiamenti personali e oblio, dal suo volontario esilio nell’isola di Pantelleria e dalla quiete dei suoi vigneti, certamente continuerò a battersi per difendere un’onorabilità che gli spetta e che una giustizia lenta e fumosa non può ledere.

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