Addio ad Antonio Manganelli, il 'duro' che sapeva chiedere scusa

Se n'e' andato un poliziotto vero, uno d'altri tempi, uno sempre in prima linea come e con l'ultimo degli agenti di polizia o delle forze dell'ordine. E' morto il capo della Polizia, Antonio Manganelli. Non ci sono riuscite Cosa nostra e la camorra, che pure l'avevano in cima alla lista dei loro obiettivi; non ci sono riusciti i banditi, i rapinatori e i sequestratori di persona che per anni aveva combattuto duramente ma anche con alto senso del rispetto delle regole. C'e' riuscita la malattia, che uno del sud come lui avrebbe indicato solo come "un brutto male", la parola tumore non serve.

Un flash d'agenzia, una riga appena, poco prima delle 13 ha fatto sapere quello che purtroppo temevano quanti lo conoscevano o forse s'attendevano impotenti. Domani dalle 15 camera ardente alla Scuola superiore di polizia di via Pier della Francesca. I funerali di Stato si svolgeranno sabato alle 11 nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Roma. La famiglia, rispettando le sue ultime volonta', ha chiesto che al posto di omaggi floreali siano effettuate donazioni all'Istituto Oncologico Romagnolo di Imola. Originario di Avellino, 62 anni compiuti l'8 dicembre scorso, Manganelli era capo della polizia dal giugno 2007.

Malato da tempo, il 24 febbraio scorso era stato ricoverato d'urgenza ed operato all'Ospedale San Giovanni per la rimozione di un ematoma cerebrale, conseguenza di un'emorragia. L'intervento riesce perfettamente, assicurano i medici, ma quella e' stata la sua ultima corsa con la vita. Questa volta senza il sorriso che accompagnava un carattere fermo e deciso. E duro quel tanto che serviva ad assicurare il rispetto delle regole e delle leggi, piacciano o no ma pur sempre regole che la societa' si e' data con le leggi. "Avevo solo una fissazione nella mia vita, quella di fare l'investigatore. E sono felice di esserci riuscito".
Erano i giorni dell'Assemblea generale dell'Interpol, nel novembre scorso, quando Antonio Manganelli - orgoglioso del fatto che proprio l'Italia fosse stata scelta per ospitare l'incontro tra i capi di quasi 200 polizie di tutto il mondo - ribadiva ai cronisti come il suo essere "poliziotto" fosse molto piu' di un mestiere, quasi una missione. Onorata fino in fondo anche nei giorni della malattia che l'aveva costretto ad un periodo di cure negli States senza pero' riuscire a strapparlo al suo lavoro. Laureato in Giurisprudenza a Napoli, si specializza in Criminologia Clinica a Modena.

Gli anni '70 e '80 - dopo l'ingresso in polizia - sono quelli della formazione sul campo, spesi per acquisire esperienza e preparazione tecnica prima nel settore dei sequestri di persona a scopo di estorsione e poi in quello antimafia. Numero due del Nucleo anticrimine, collabora anche con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il lavoro al fianco dei due magistrati lo aiuta a imporsi come punto di riferimento dei principali organi giudiziari e investigativi europei ed extraeuropei, dall'Fbi alla Bka tedesca. Nel '91, quando il collega ed amico Gianni De Gennaro tiene a battesimo la neonata Direzione investigativa antimafia, diventa direttore dello Sco, il Servizio centrale operativo, e del Servizio centrale di protezione dei collaboratori di giustizia; dal '97 e' questore a Palermo e dal '99 a Napoli. Prefetto nel 2000, viene nominato direttore centrale della Polizia criminale e vicedirettore generale della pubblica sicurezza, incarico nel quale dal dicembre dell'anno successivo assume le funzioni vicarie del capo della polizia.
Il 25 giugno 2007 diventa capo della polizia. E' stato autore di pubblicazioni scientifiche in materia di sequestri di persona e di tecnica di polizia giudiziaria, ha catturato alcuni dei latitanti di maggior spicco delle organizzazioni mafiose, oltre cinquanta solo nei quasi sei anni da capo. "Li prenderemo tutti", promette il giorno dell'inaugurazione del commissariato di Castelvetrano, non a caso terra natale del super ricercato Matteo Messina Denaro, erede di Provenzano alla guida di Cosa nostra. Convinto sostenitore di un modello di "sicurezza partecipata" che prevede il contributo delle forze dell'ordine, delle istituzioni centrali e locali e degli stessi cittadini, fa della "trasparenza" il filo conduttore del suo mandato. "Orgoglioso di essere il capo di donne e uomini che quotidianamente garantiscono la sicurezza e la democrazia di questo Paese", e' pronto anche a riconoscerne gli errori: incontra i genitori di Federico Aldrovandi, il 18enne ucciso durante un controllo di polizia a Ferrara nel settembre del 2005 (quattro gli agenti condannati) e, undici anni dopo l'irruzione alla Diaz, all'indomani del verdetto della Cassazione che conferma le condanne d'appello per falso nei confronti della catena di comando all'epoca del G8 di Genova, dice e' "il momento delle scuse". "Scuse dovute", ai cittadini "che hanno subito danni" e anche a quelli che, avendo fiducia nella polizia, "l'hanno vista in difficolta' per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalita' ed efficienza". Alla notizia della morte e' seguito un flusso continuo di messaggi di cordoglio arrivati da tutti i settori della societa' e della politica. Spiccano quelli degli ultimi due ministri dell'Interno con cui aveva lavorato. "Ciao Antonio, maestro di vita e amico vero. Rimarrai per sempre nel mio cuore", ha scritto Roberto Maroni. Un "valente investigatore", poi un "appassionato, generoso ed efficiente capo della polizia": doti che hanno fatto di lui "un numero uno" che oggi tutti piangono "con immenso dolore", ha scritto Annamaria Cancellieri. "Addio carissimo, che la terra ti sia lieve", ha aggiunto. E con lei tutto coloro che l'hanno conosciuto.
 (AGI) .

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