Il gioielliere ucciso con 5 colpi: c'è una traccia dell'aggressore

Ha lottato, Giovanni Veronesi. Ha provato a reagire con le forze dei suoi 74 anni, lui vecchia cintura nera di judo, quando ha capito che la persona — o le persone — che aveva lasciato entrare nella sua gioielleria in via dell’Orso dal 1896, non aveva più voglia di discutere. Ed è stato colpito cinque volte alla testa, botte per stordirlo, per tramortirlo. L’ultimo, alla base del cranio, per ucciderlo. Omicidio d’impeto, usando con forza inaudita, con ogni probabilità, uno dei pesanti oggetti d’antiquariato spariti dalla bottega. Ma anche lucido se l’assassino ha chiuso la bocca per sempre all’orefice amante dei viaggi ai Tropici e del Milan prima di compiere l’ultimo gesto: cercare e trovare i circuiti dell’impianto interno di videosorveglianza, strappare una telecamera e i suoi fili (senza toccare quella esterna).
Veronesi di sicuro ha aperto la porta. In camicia e senza giacca. Probabilmente perché ha riconosciuto chi era arrivato oppure ha visto una persona che non gli sembrava pericolosa. Agli occhi di un ladro, l’anziano nel negozio da solo è un bersaglio semplice da minacciare per portargli via l’oro: ma pochi preziosi sono spariti da un ripiano della vetrina. E se Veronesi lo conosceva, minacciarlo e derubarlo non bastava. Non avrebbe dovuto parlare più, e tra l’altro con l’orefice a terra in fin di vita nessuno all’esterno avrebbe potuto accorgersi di un rapinatore in fuga. Non serviva correre via.
L’indagine è delicatissima e dopo l’autopsia all’Istituto di medicina legale, in piazzale Gorini, i carabinieri del Nucleo investigativo, coordinati dal pm Giancarla Serafini e dal procuratore aggiunto Alberto Nobili, sono vicinissimi alla svolta. Mancano ancora un paio di pezzi. Il primo è tecnico-scientifico: non è persa la speranza che una memoria delle immagini delle telecamere possa emergere grazie al lavoro di un bravo tecnico. Sarebbe un indizio definitivo e ci si proverà nonostante la manomissione delle telecamere della bottega, la mancanza dell’hard disk e il fatto che alcuni impianti della via siano stati trovati spenti o funzionanti ancora con videocassetta.
L’altro elemento su cui puntano i militari della seconda sezione del Nucleo di via Moscova è una serie di incongruenze emerse tra i verbali raccolti a caldo e i primi riscontri. Una telefonata, un messaggio, una traccia di un passaggio in via dell’Orso negata a voce. Qualcuno, fra le persone ascoltate, non l’ha raccontata giusta. E in queste ore i carabinieri sono tornati a sentirlo. Per capire se le sue sono innocenti bugie date da paura, distrazione o altro. La pista della rapina finita male perché Veronesi reagisce non è ancora scartata, per questo gli investigatori continuano a cercare nel giro dei piccoli rapinatori, verificando spostamenti, sperando in riconoscimenti. La famiglia, dalla figlia Antonella al figlio Guglielmo — che pure tiene una pistola per legittima difesa nella sua gioielleria in via Manzoni — alla compagna Susanna, è altrove, chiusa nel dolore. Aspettando di sapere.
(La Repubblica)

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