Mafia, processo Eden. Grigoli fingeva di collaborare su ordine di Messina Denaro

Quando Giuseppe Grigoli, ex ‘’re dei supermercati Despar’’ in Sicilia occidentale, iniziò a parlare, in carcere, di Vincenzo Panicola, marito di Anna Patrizia Messina Denaro, il sospetto degli inquirenti era che quelle dichiarazioni fossero concordate con il boss Matteo Messina Denaro, allo scopo di accreditarsi come pentito ed evitare così la confisca
dell’ingente patrimonio da parte dello Stato. 
Del resto, in carcere, lo stesso Grigoli, probabilmente per evitare ritorsioni, aveva detto ad alcuni compagni di cella napoletani che diceva quelle cose ai magistrati perché ‘’autorizzato’’ da Matteo Messina Denaro. Di questo si è parlato, in Tribunale, nel corso dell’ultima udienza del processo scaturito dall’operazione ‘’Eden’’, che alla sbarra degli imputati vede, tra gli altri, Anna Patrizia Messina Denaro, Francesco Guttadauro (rispettivamente sorella e nipote del boss latitante), e Antonino Lo Sciuto.


E inoltre Vincenzo Torino, accusato di intestazione fittizia di beni, e Girolama La Cascia per false dichiarazioni al pubblico ministero. A rispondere alle domande dei pm Carlo Marzella e Paolo Guido è stato il commissario di polizia Carmelo Marranca, che ha parlato delle indagini e delle intercettazioni effettuate dallo Sco, dalla Squadra mobile di Palermo e da quella di Trapani. Dalle intercettazioni, ha spiegato l’investigatore, emerge che Grigoli, quando era detenuto nel carcere romano di Rebibbia (aprile 2013) avrebbe "rigurgitato" informazioni su Panicola, facendo intendere che stava collaborando. A dargli l’ok, in carcere, sarebbe stato Giuseppe Faraone, della famiglia mafiosa di Brancaccio, anch’egli detenuto a Trapani tra il 2012 e il 2013. In un’altra video intercettazione Vincenzo Panicola, parlando con la moglie, si pone il problema se le dichiarazioni di Grigoli possano essere state davvero autorizzate dal fratello di Patrizia, Salvatore o Matteo. A gesti si accenna anche ad una ritorsione violenta contro Grigoli. Poteva essere stata una strategia per consentire a Grigoli di conservare i beni, essendo la ‘’cassaforte di Cosa nostra’’. Patrizia avrebbe, quindi, chiesto al fratello latitante se davvero Grigoli era stato autorizzato a parlare da lui (‘’Ci dissi: si poi si sente che è autorizzato di tia, a genti si cunfunne’’). Il 19 giugno 2013, quando Grigoli era detenuto a Voghera, gli inquirenti ascoltano Anna Patrizia Messina Denaro che dice: ‘’Che nessuno lo tocchi. Lassatilu ire. Chiù dannu po' fari, chiossai, pi deci volte. Una catastrofe. No, unn'avi raggiune, (non era stato autorizzato, ndr). Perciò se qualcuno ti spia ci dici lassatilu ire’’. Insomma, il boss non aveva autorizzato Grigoli ad aprire bocca, ma una ritorsione immediata avrebbe potuto provocare grossi danni al clan Messina Denaro. Prossima udienza il 4 dicembre, quando verranno ascoltati quattro testi della difesa, tra i quali un notaio.

CAPACI. Una cinquantina di omicidi alle spalle (tra cui quello di don Pino Puglisi) Salvatore Grigoli racconta al processo “bis” sulla strage di Capaci le fasi di lavorazione dell’esplosivo destinato alle stragi del ’93 e ’94. Se fosse stato per Matteo Messina Denaro il killer di Brancaccio sarebbe diventato reggente del mandamento. Ma il boss latitante non sapeva che Grigoli, oggi collaboratore di giustizia ed ex mafioso al servizio dei Graviano, aveva un parente nell’Arma dei Carabinieri. Un requisito, questo, incompatibile con la nomina desiderata da Messina Denaro.

“La prima volta lo vidi in 4 o 5 sacchi di iuta – ricorda il collaboratore di giustizia parlando dell’esplosivo – per polverizzarlo utilizzavamo le mazze oppure la molazza (macchina impastatrice usata per le costruzioni edili, ndr) perché era più veloce ed efficace. Lo macinavamo e setacciavamo fino a quando non diventava una farina giallastra, poi veniva insaccato nei sacchi neri della spazzatura. Quando lavoravo l'esplosivo, urinavo rosso. Quando lo maneggiavo, mi bruciava la gola. Lo Nigro (Cosimo Lo Nigro, tra gli imputati al processo, ndr) con una corda avvolgeva i sacchi fino a quando non diventavano compressi, duri con forma tondeggiante che eravamo soliti chiamare forme di parmigiano. Per questa operazione occorreva anche il nastro adesivo, quello per i pacchi. Dopodichè l’esplosivo era già pronto all’uso con detonatori con la miccia o elettronici”. In tutto 500 chili. “Per setacciare – continua Grigoli – usavamo setacci veri e propri per la farina, poi quello che rimaneva lo mettevamo nella molazza”. Il pentito racconta che le operazioni iniziarono in un rudere di proprietà di Antonino Mangano (reggente di Brancaccio, ndr) ma poco dopo il gruppo esecutivo (di cui faceva parte anche Gaspare Spatuzza) si spostò in un capannone di sua proprietà. “Lo Nigro era quello pratico, inizialmente dava le direttive poi divenne una routine” aggiunge il killer di Brancaccio. Tre “forme” di esplosivo furono portate a Roma, per l’attentato allo Stadio Olimpico poi fallito: “Per quasi tutta una notte tagliavo tondini di ferro, per recare più danno possibile alle persone. Dovevamo colpire le forze dell’ordine. Stimo che ci sarebbero stati due o trecento morti”. 
A quale pro se non per ottenere qualcosa? È la riflessione di Grigoli all’epoca, che oggi precisa: “poi parlando con Mangano ho avuto un’idea più chiara. Dopo le stragi del ’93 mi disse che colpendo lo Stato in questa maniera qualcuno prima o poi si sarebbe fatto avanti a parlare con Cosa nostra”. Sulle richieste che stavano a cuore ai boss mafiosi, continua Grigoli, “sicuramente all’epoca c’era il fatto del 41bis, una delle cose primarie era abolire il carcere duro, e attraverso le rivendicazioni (delle stragi, ndr) a nome di Falange armata si poteva arrivare a che Cosa nostra fosse interpellata”. Il pentito fa poi il nome di Marcello Dell’Utri: “era nelle mani dei Graviano, era risaputo che avevano contatti politici”.
(TP24)

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