Lettera aperta: Sapranno i “grandi” della Sicilia cogliere le sfide del G7?


Si sono spenti i riflettori sul G7 di Taormina, evento planetario che ha fatto sognare molti siciliani per via della “botta di notorietà” derivante dalla presenza di decine di operatori di media e della comunicazione provenienti da molti angoli del mondo. Al netto dei risultati politici e diplomatici non v’è dubbio che eventi che accendono le luci sulla Sicilia, peraltro vestita a festa, non possono che portare benefici effetti nel breve, nel medio e nel lungo periodo alle attività economiche fondamentali per il suo sviluppo: Turismo, Artigianato di valore, Agroalimentare, Mare e Innovazione.
Si, innovazione, perché molti non lo sanno, o fanno finta di non sapere, che in Sicilia si innova grazie ad un enorme aggregazione di forze e istituzioni pubbliche e private, grazie ad un esercito di giovani talenti che ancora resistono alla tentazione di emigrare al nord. Sono i giovani che operano nelle istituzioni scientifiche siciliane e nelle piccole, spesso micro, imprese che con coraggio ed ingegno riescono ad innovare, nonostante tutto. 

Il ritorno però alla quotidianità, alla vita di tutti i giorni, ci riporta alle drammatiche immagini che paradossalmente quasi non fanno più notizia: centinaia di morti in mare fra le migliaia di disperati che ogni giorno tentano di approdare in Europa e la Sicilia è la prima spiaggia.

La Sicilia, al netto dei pochi che attorno al fenomeno dell’immigrazione hanno costruito un vero business, è la terra che paga il tributo più alto. Pensate, noi, che siamo i più poveri d’Italia, siamo costretti a pagare di più. E’ bene che il mondo sappia che nel dna dei siciliani la generosità è elemento dominante ed accanto ai soliti speculatori esiste un esercito di volontari, portatori sani di solidarietà. Ma così non può continuare. Non può sempre contribuire in misura maggiore il più povero. 

Al G7, dai Grandi del Mondo è stato sfiorato il tema di un “piano Marshall” per il Mediterraneo e l’Africa. L’avere ospitato simbolicamente all’assise di Taormina alcuni Capi di stato africani aveva un significato preciso. Volgere lo sguardo sul Mediterraneo e l’Africa al fine di frenare questa biblica emorragia umana.

Ritorna ciclicamente, fra i Grandi del Mondo, la semplice ed ovvia idea di fermare l’esodo verso l’occidente attraverso la prima regola naturale, ovvia, scontata: rendere sconveniente l’immigrazione. Ciò si può fare in due modi: alzare i muri, barriere ed elevare la sorveglianza, anche militare, oppure puntando allo sviluppo nei luoghi di partenza, creando lì posti di lavoro e migliorando le condizioni di vita. E’ del tutto evidente che la prima soluzione è la più facile, la meno onerosa e più conveniente nel breve periodo ad alimentare l’industria (anche quella bellica) e gli interessi dei c.d. grandi. La strada più complessa è la seconda. Essa richiede programmazione, progettazione, metodo, coinvolgimento, inclusione, enormi sforzi diplomatici e di intelligence. Ma soprattutto, impone uno strumento di questi tempi ai più inviso: il dialogo.

Dialogo sul piano politico, scientifico, produttivo, interculturale e quindi interreligioso. Credo, senza farsi tentare dalla presunzione, che da alcuni anni proprio dalla Sicilia è partito un fecondo movimento silenzioso di ricercatori, imprenditori illuminati, associazioni, scuole che stanno lavorando e sperimentando intorno ad un modello economico e sociale: il Distretto Produttivo della Pesca e Crescita Blu.

Il Distretto è uno strumento tipico della produzione italiana, già collaudato non solo nei settori del manufatturiero, ma anche nel turismo, nell’agroalimentare e nelle attività legate al mare. E’ proprio da qui dal mare che parte una sfida planetaria: esportare in Africa un modello innovativo e caratteristico del sistema socio economico italiano che il mondo ci invidia e tenta di clonare, ossia il Cluster.

Esportare un modello non significa delocalizzare le attività, le imprese. Al contrario, significa creare “ponti” fatti di scambi, di lavoro, di ricerca comune, di opportunità comuni. 

La Sicilia, una volta tanto, ha fra le mani uno strumento potente ed importante per qualificare la sua identità e cambiare il suo destino.
Speriamo che i cosiddetti “grandi” della Sicilia, cioè la classe politica dirigente, sappia maneggiare bene questi strumenti.

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