Marilena La Rosa: La Sarta

Fiaba o romanzo? Racconto giallo o fantastico? Storia d’amore o di amicizia? Difficile incasellare La Sarta, opera prima di Marilena La Rosa, in uno soltanto di questi generi, difficile ma soprattutto iniquo. In questo breve romanzo difatti l’autrice, acese di nascita e palermitana di adozione, intreccia in una trama ricca, sottile e sapiente, fili letterari differenti, per atmosfere e motivi, e apre al lettore un percorso lieve e profondo al tempo stesso che ha un sapore insieme delicato e persistente, sfumato nelle tonalità ma preciso nelle emozioni. Facendo nostra una felice e puntuale osservazione di Corrado Bologna, nel romanzo “una tramatura finissima di richiami letterari si nasconde dietro le quinte delle semplici e bizzarre, talora perfino stralunate vicende che Marilena La Rosa impernia sulla sarta Yumiko e sulla sua apprendista Saele”. Il lettore può, quindi, individuare e seguire il filo immaginifico e onirico di certa letteratura latino-americana, da Amado a Marquez alla Allende, o quello leggendario e mitologico dell’epica classica e cavalleresca o, infine, ritrovare quello leggero e graffiante della letteratura di Calvino. Guai, però, a separare e riavvolgere tali fili, guai a scucire la trama! La Sarta di Marilena la Rosa va letto e gustato così com’è, nell’interezza della sua “tramatura”.
Yumiko, la sarta protagonista della storia, e i suoi compagni di viaggio si muovono in un mondo di fiaba, carico di atmosfere e personaggi surreali: teatro della vicenda è il paese Santa Maria della Scala, luogo di fantasia, citazione, tuttavia, di una memoria geografica e temporale precisa, certamente riferibile a certa sicilianità espressamente richiamata.
Yumiko è un personaggio dal nome parlante, come tanti altri se ne possono trovare all’interno del racconto: crea bellezza. In lei sono intrecciati percorsi etnici lontanissimi fra loro (le nonne, inglese l’una e giapponese l’altra), testimoniati, tuttavia, dalla coesistenza di tinte e profumi nel suo aspetto; Yumiko sembra essa stessa un abito, fresco e allegro, composto da una variopinta stoffa di origine esotica. Ed effettivamente sin dalla sua prima apparizione, trasportata da una brezza che profuma di iris, in mano una borsa ricca di fili e tessuti colorati, si presenta come una creatura speciale, foriera di sensazioni vivaci e odorose in una realtà, quella del paese, grigia e sopita.
Ne è immediata figura Rosa, un donnone grave, che quasi come se avesse trovato la propria specularità, spalanca le porte alla delicata Yumiko e, per prima, riceve da lei un abito rosso e ricamato di bianco che le sconvolge radicalmente e felicemente l’esistenza. Questo fa Yumiko, infatti: dapprima da sola, poi con la sua assistente Saele, cuce abiti su misura per i suoi stralunati clienti, non prima di averne ascoltato i desideri e penetrato l’anima, riuscendo, attraverso un vestito, ad amare ciascuno e a fare in modo, soprattutto, che ciascuno ami se stesso. L’abito della sarta ha un sapore epifanico, a tratti catartico. L’abito che, per citare l’autrice, “è l’emblema dell’apparenza, una scelta che operiamo continuamente per presentarci all’esterno” diviene paradossalmente “la chiave per andare oltre questa apparenza”.
Contraddizione? Come tante altre che affiorano in questo libro, in cui garbo e prepotenza, arroganza e gentilezza, stupidità e sapienza, amore e violenza, gioia e dolore dialogano continuamente, in un gioco in cui gli opposti si avvicinano, si guardano, si conoscono, si compongono e scompongono, con una serie di movimenti letterari sfumati e giocosi, puntellati da una lieve ironia, disseminata qua e là sapientemente, in un alternarsi di stupefatte esaltazioni e di conseguenti, benché impreviste, dissacrazioni. La storia della Sarta, quindi, tocca corde profonde, invita ad amare, a conoscere gli altri per coglierne la vera essenza; così Rosa, la ruvida proprietaria della pensione, diviene leggiadra e trova un compagno con cui e per cui preparare i suoi dolci leggendari; Mario, lo “scemo filosofo”, che all’età di quattro mesi già leggeva il Capitale di Marx e che farfuglia per il paese massime profondissime ma incomprese, diventa un super eroe capace di scorgere e far vincere il bene; Ivano, il poeta, la cui opera prima era stata erroneamente scambiata per un libro di cucina, ritrova l’estro letterario e compone versi che si baciano; Bruno, il giardiniere, scopre l’amore e coltiva cespugli di ortensie rigogliose e di lillà profumati. Solo chi non ama davvero, chi non si apre agli altri, chi rimane ripiegato e concentrato su se stesso, come il Sindaco, personaggio prepotente, arrogante e violento, non riceve alcun reale beneficio dall’abito cucitogli da Yumiko, sua futura moglie. Il fine della sua richiesta, difatti, è meramente esteriore: vincere le elezioni. Nessuna volontà di conoscersi e di offrirsi, ma solo di prendere con violenza e fingere. Così il Sindaco, temuto e odiato da tutti, finisce ucciso, separato in due metà perfettamente simmetriche (citazione dichiaratamente calviniana), quasi a testimoniare che chi si concentra solo su se stesso avidamente, senza concedersi agli altri, non conquista mai nella sua interezza la propria interiorità. Allo stesso modo il detective chiamato a risolvere il giallo, l’ispettore Mazzamuto, felicissimo e grottesco personaggio, pertinacemente persuaso della sua infallibile sagacia investigativa, nonostante abbia indosso il suo trench migliore, si rivela del tutto incapace di intuire e sciogliere l’enigma, cogliendo indizi incerti, connessioni funamboliche, confessioni improbabili, a testimoniare, anche in questo caso, quanto verità e apparenza siano spesso inconciliabili. Merita, infine, una nota a parte la scrittura. Attingendo ancora alle parole dell’autrice, “La sarta, utilizza più forme di espressione”, mescolando e intessendo, sapientemente quanto inaspettatamente, registri opposti. “Ho recuperato l’uso dell’aggettivazione esornativa, attenta e minuziosa, della subordinazione descrittiva” afferma Marilena La Rosa, “ho mescolato termini aulici col parlato quotidiano. Spesso i personaggi più ‘bassi’ si esprimono in una lingua più ‘alta’ e viceversa, i personaggi più concreti usano il linguaggio della poesia e quelli più eterei un registro improntato sull’uso quotidiano.”. Al lettore, in definitiva, è offerta una storia scritta in una lingua varia, preziosa, ricca, suggestiva, piena di colori e di immagini, di espressioni ironiche e ossimoriche, sparse con mano lieve, di sollecitazioni sensoriali; una lingua che è vivida estrinsecazione dell’umanità variopinta, surreale e verace, protagonista di questa fresca metafora del mondo. Tiziana Giordano

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