La Systeme in Bewegung e.V., la Femedubeart e la Human Rights Youth Organization - tre organizzazioni, provenienti rispettivamente da Germania, Grecia e Italia - si sono unite per capire dal basso com’è la vita dei giovani queer in questi Paesi, incontrandoli in spazi comunitari, uffici, centri giovanili e reti di attivismo per ascoltare le loro esperienze, aiutati da operatori sociali.
In ciascun Paese, sebbene il contesto locale fosse diverso, sono emersi temi comuni che hanno rivelato il panorama emotivo, sociale e istituzionale in cui i giovani e le giovani queer si muovono quotidianamente.
In Italia, al centro delle indagini della H.R.Y.O. (Human Rights Youth Organization APS) è stata la città di Palermo, dove sono state raccolte le voci di una giovane donna che si identifica come omosessuale, una donna queer, una persona non binaria e un’intervista finale con una giovane queer operatrice sociale e attivista che sostiene i richiedenti asilo SOGIESC* in Sicilia. La diversità delle voci ha inglobato le complesse intersezioni tra queerness, genere, migrazione ed emarginazione istituzionale.
In tutti gli intervistati, uno dei temi più urgenti ha riguardato il modo in cui i giovani queer hanno preso coscienza della propria identità. Le tempistiche e le emozioni sono diverse e sono politiche, derivanti da un contesto eterocentrico e di binarismo in cui il processo dalla consapevolezza alla autoidentificazione è difficile a causa di una vulnerabilizzazione statale, che spinge alla confusione e alla paura, al senso di inadeguatezza. Nelle diverse narrazioni, era comune la sensazione di non rientrare nei rigidi schemi dei ruoli di genere o negli script romantici dei diversi Paesi, ma anche lo sforzo emotivo necessario. Ciò che emerge è che l’autoidentificazione non è mai stata puramente individuale, ma profondamente relazionale e modellata dai messaggi culturali, dagli ambienti scolastici e dalla visibilità o meno di modelli di riferimento LGBTQIA+.
In tutti i Paesi presi in esame, il complesso processo personale di scoperta di sé e di definizione della propria identità ha visto delle fasi iniziali spesso caratterizzate dall’isolamento. La mancanza di rappresentazione, l’assenza di un linguaggio e la pressione a conformarsi hanno contribuito a creare un carico emotivo silenzioso ma pesante.
Anche quando la consapevolezza della propria identità è iniziata presto, senza il sostegno o il riconoscimento del proprio ambiente, l’accettazione è arrivata molto più tardi.
Diversa, in Italia, la narrazione di sé dei migranti richiedenti asilo SOGIESC*, che spesso possono avere rapporti omosessuali senza legarli a un’identità fissa.
Sul coming out, in Italia, molti hanno raccontato come sia ancora un’esperienza emotivamente faticosa, spesso accolta con curiosità invadente, imbarazzo o reazioni eccessive. «Vorrei che reagissero come se dicessi che preferisco l’acqua frizzante a quella naturale», ha detto una partecipante. Questa semplice metafora esprime un desiderio collettivo: essere accolti con normalità, non con stupore.
Le interviste realizzate in Italia, è importante sottolineare, erano di donne.
Esistere apertamente significa ancora dover affrontare microaggressioni, battute, supposizioni e l’eterna richiesta di spiegare ed educare - una fatica che logora. “In questo clima di tensione quotidiana e di continuo attrito sociale, il desiderio di sicurezza autentica e di connessione reciproca diventava sempre più urgente. Anche in spazi che si definiscono inclusivi, le persone queer spesso sentono insicurezza. La discriminazione si estende anche al sistema sanitario e alle procedure di registrazione matrimoniale, dove le relazioni LGBTQIA+ vengono spesso accolte con confusione o evitamento”, spiega Marco Farina, presidente della Human Rights Youth Organization.
L’alleanza è emersa come un altro tema centrale in tutti i contesti. In Italia, i partecipanti hanno tracciato una chiara distinzione tra il sostegno autentico e i gesti performativi. Sebbene gli atti simbolici, come sventolare una bandiera arcobaleno, siano apprezzati, sono percepiti come significativi solo se accompagnati da presenza emotiva e responsabilità concreta. "Essere ally - hanno spiegato - significa amplificare le voci delle persone della comunità LGBTIA+ senza appropriarsi del messaggio, riconoscere il proprio privilegio e fare spazio invece di occuparlo. Una vera alleanza comporta anche l’assunzione della responsabilità di affrontare la discriminazione, che può manifestarsi in famiglia, a scuola o sul posto di lavoro, senza lasciare questo peso solo sulle loro spalle."
Le scuole sono state ampiamente descritte come insicure o impreparate e l’inclusione in realtà si basa solo sulla resilienza individuale. Emerge la necessità non solo di servizi, ma anche di educazione specifica per insegnanti, famiglie, trainer.
Le voci raccolte attraverso il Progetto ALLY trasmettono un messaggio chiaro: l’alleanza autentica non è fatta di slogan, ma di cura strutturale.
“Per le organizzazioni giovanili in tutta Europa, questo significa assumersi una responsabilità attiva nel costruire ambienti realmente inclusivi. Anche i gesti quotidiani più semplici hanno un valore. Chiedere e usare i pronomi corretti nelle conversazioni, nelle e-mail o sui badge è un segno di rispetto che aiuta a evitare il misgendering e a riconoscere la diversità delle identità. Allo stesso modo, offrire bagni neutri rispetto al genere o moduli di iscrizione inclusivi comunica attenzione e fa sentire le persone più sicure”, conclude Marco Farina.


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