"Cercate qualcosa in cui credere" a villa Pajno rivive l'impegno e il coraggio del prefetto Dalla Chiesa

di Ambra Drago
"Cercate qualcosa in cui credere" questo era il messaggio lasciato dal generale e prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa , ucciso alle ore 21,15 del 3 settembre insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente Domenico Russo in via Isidoro Carini a Palermo.Totò Riina e i suoi uomini misero fine alla vita di un uomo, tre volte partigiano, che aveva combattuto il terrorismo e adesso mirava a colpire l'arroganza mafiosa della mafia, principalmente colpendone gli interessi economici.


I 123 giorni del suo impegno istituzionale e civile sono stati oggetto di un racconto realizzato dall'attuale prefetto di Palermo, Antonella De Miro, che l'ha voluto regalare a un'ampia e attenta platea proprio in occasione del 37esimo anniversario dell'uccisione del generale Dalla Chiesa.
Il mandato che aveva portato il prefetto Dalla Chiesa a Palermo dal 1 maggio 82 alla tragica sera del 3 settembre è stato abilmente raccontato dalla narrazione attenta e magistrale dell'attore Gigi Borruso, accompagnato per l'occasione al pianoforte da Davide Spina.


"Per me il prefetto Dalla Chiesa è stato una figura importante, fonte di inspirazione nello svolgere con determinazione, impegno e approfondita conoscenza il mio impegno- ha sottolineato il prefetto De Miro. Sono entrata nell'amministrazione dell'Interno nel 1983, un anno dopo la sua morte, e per me è stata fondamentale la sua figura. Ecco perché ho fatto questo lavoro di ricerca attraverso, lettere, giornali e le varie relazioni del Comitato per l'Ordine e la Sicurezza che aveva presieduto.L'ho detto anche questa mattina nel corso delle commemorazioni all'interno della Caserma che porta il suo nome, voglio dirgli un Grazie sentito".
Nel corso di questo viaggio emozionale nel ripercorrere le varie tappe, è stata ricordata anche una lettera che gli alunni della III A del liceo scientifico del Gonzaga ( alcuni erano presenti alla serata) hanno voluto scrivere in segno di ringraziamento al prefetto. La missiva venne pubblicata con il titolo "Lettera a Dalla Chiesa nostro amico" sulle colonne del giornale L'Ora. E l'umanità di Dalla Chiesa all'epoca si palesò nel voler incontrare questi giovani, uno di questi dal primo banco, gli chiese " Generale lei non ha paura?". La risposta fu chiara e frutto dell'essenza dell'uomo e dell'istituzione che in quel momento rappresentava:"Ho preventivato la paura nel momento in cui ho fatto certe scelte ma posso limitarla a me stesso, non posso coinvolgere gli altri".Ma anche pochi giorni dopo il prefetto scelse di incontrare i giovani del Liceo Garibaldi ai quali disse: " Sono qui con voi perché credo nella gioventù. Credo che i prefetti non siano super eroi ma sono il meglio dal punto di vista amministrativo che lo Stato possa offrire. La mafia si combatte cancellando il metodo dei compromessi e io sono qui per formulare una diagnosi maturata e non fondata sulla velocità o sul mezzo fondo. C'è però un plafon oltre il quale non si può andare, il terrorismo mafioso".Ecco Dalla chieda sottolineò come bisognava combattere il potere eversivo della mafia.
Era passato un mese dal suo incarico ma Dalla Chiesa fino a quel momento non aveva ricevuto nessun aiuto dallo Stato, lui non voleva "poteri speciali" ma chiarezza sugli strumenti. Un percorso quello del prefetto, "piemontese di ferro" che lo vedeva impegnato sempre nelle scuole ì, era accaduto un ultima volta al Ranchibile dove incontrò 200 giovani e le loro famiglie, questa volta il prefetto aveva affrontai il tema della droga. "Fatevi contestatori del sistema mafioso, non date ossigena quelli che ve lo tolgono. Vorrei che diventaste la mia forza contro la droga".E poi arriva il  10 agosto e quella intervista rilasciata sul quotidiano La Repubblica a Giorgio Bocca: "Non chiedo leggi speciali ma chiarezza chiunque pensasse di combattere la mafia nel pascolo palermitano invece che nel resto d'Italia non farebbe che perdere tempo. Mi colpisce il policentrismo della mafia. Veda si uccide un uomo potente perché è diventato pericoloso e isolato". Frasi profetiche, che avevano visto il Generale ricordare gli omicidi del giudice Costa ( il 6 agosto 1980) e del segretario del partito comunista Pio La Torre ( il 30 aprile 1982) . Di questa morte il prefetto dirà : " E' morto per via del so disegno di legge, aveva messo accanto al semplice reato di associazione a delinquere, quello di associazione mafiosa". E via via si scivola a quel 3 settembre, Dalla Chiesa solo ( così era apparso in un titolo del Giornale di Sicilia), ma nonostante tutto continua a lavorare e nello stesso pomeriggio scrive una lettere riservata al Ministero dell'Interno e poi la sua vita venne spezzata dagli uomini di Totò Riina. La Corte d'Assise ha condannato i mandanti e gli esecutori della sua morte, di quella di Emanuela, sua moglie sposata appena ali 10 luglio di quell'anno, e di un poliziotto che svolgeva il suo dovere. Gli stessi giudici arrivarono alla conclusione della sussistenza di zone d'ombra al di la del potere mafioso e che era ormai diventato necessario eliminare il pericolo legato alla determinazione di un uomo del calibro del prefetto Dalla Chiesa.
Una storia, una vita che si intreccia a quella di un padre, presenti a villa Pajno i tre figli del Generale ( Nando, Simona e Rita), tutti visibilmente emozionati come le autorità civili e militari presenti nel giardino. 
Il prefetto De Miro che a breve raggiungerà i 40 anni di servizio all'interno dell'amministrazione dell'Interno salutando gli ospiti ha aggiunto, con la voce rotta dall'emozione: " Vi invito a credere così come voleva il prefetto Dalla Chiesa e richiamando il famoso cartello esposto poco dopo la sua morte, che la speranza non può morire"


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