39 anni fa veniva ucciso il giudice Chinnici. La figlia: "Padre presente, autorevole e non autoritario. Il suo lavoro riconosciuto nel nostro Paese e a livello europeo"

di Ambra Drago
L'impegno per questa terra, la volontà di cambiarla e di contrastare il fenomeno mafioso. Tutto questo aveva compito il "padre" del Pool antimafia, il giudice Rocco Chinnici sino a quel 29 luglio 1983 quando un autobomba mise fine alla sua vita e a quella del maresciallo Mario Trapassi, dell'appuntato Salvatore Bartolotta e di Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile di via Pipitone Federico dove abitava il giudice. La volontà di rendere libera la Sicilia, un insegnamento che la figlia del giudice istruttore, Caterina Chinnici, anche lei magistrato e europarlamentare ha portato con se. "Lui amava profondamente la Sicilia, ha scelto di impegnarsi per questa terra anche accettando il rischio per la sua vita. E questo suo esempio, il modello di attenzione e dedizione ha guidato il mio lavoro in tutte le diverse funzioni che ho svolto. Credo che ricordarlo oggi sia davvero importante perchè il lavoro che lui ha iniziato più di 40 anni fa in una condizione difficile, oggi è un lavoro attuale sul quale si evolve anche la legislazione europea. E' stato un visionario, che però ha segnato un percorso di impegno che gli viene  riconosciuto nel nostro Paese e a livello europeo".Abbiamo chiesto alla dottoressa Chinnici anche il risvolto umano di questo papà."Mio padre è stato molto presente nella vita di noi figli. Quando eravamo piccoli si prendeva cura di noi e poi da più grandi è stato una presenza rassicurante, mai invadente. Con la sua autorevolezza che è cosa ben diversa dalla sua autorità e questo essere sempre al nostro fianco e ci ha fatto crescere sereni. 

C'è sempre stato e posso dire da figlia che continua ad esserci".E Caterina Chinnici, insieme al fratello Giovanni, accompagnati, dagli altri familiari delle vittime, dal comandante interregionale dei carabinieri, il generale Riccardo Galletta, dal vice presidente della Regione, il professore Gaetano Armao, dal sindaco di Palermo Lagalla, dal vicario del prefetto e dal presidente di Corte d'appello, Matteo Frasca, hanno deposto una corona sul luogo dell'agguato.

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