Addio Mennea per te ci spellammo le mani

Il campione di Barletta – uomo del sud – non fu mai celebrato abbastanza da vivo né ascoltato come avrebbe voluto 
Troppo presto 61 anni d’età per salutare un campione che era un “messaggio vivente” dalle tante – forse troppe – connotazioni. Longevo nell’attività sportiva, che lo vide vincitore in mille gare sin da giovane fino ad oltre 30 anni, molto meno nella vita. 
Le cinque olimpiadi disputate non hanno potuto “evitare” che si trattasse di un personaggio popolarissimo in Italia e conosciuto anche all’’estero. La “Freccia del sud” fu il suo soprannome e Pietro Mennea sarà il nome del primo nato dell’elettrotreno da 400 kmh che uscirà in questi giorni dalla Ansaldo Breda, perché lui ricordava a propria gloria la battuta di un film di Manfredi alla stazione: “Insegui il treno? E che so’ Mennea?”
Tuttavia Pietro Mennea non fu mai vantato e valorizzato abbastanza dall’ufficialità e dai media. E fu questo che lo fece realmente soffrire per tutta la carriera e la vita. Sin da quando – cioè da junior – ottenne i suoi primi record e vittorie, a partire da quello nazionale e continentale, fino a quando ottenne vinse un’olimpiade (Mosca) e stabilì un record mondiale che nessuno – neppure gli atleti di colore considerati geneticamente avvantaggiati – violarono per 17 lunghissimi anni. Ebbene: quel tempo sui 200 metri piani, di 19"72 (Città del Messico 1970) è ancora il record europeo. Ma quanti lo ricordavano fino prima della sua morte. Mennea muore lasciando un record oltralpe. E si pensi che anche qui gli atleti di colore (Francia, Inghilterra…) non sono rari. 
Ebbene, è facile adesso commemorarlo con cuscini di fiori del presidente della Repubblica e picchetti d’onore del Coni… Fra gli azzurri che lo hanno ricordato meglio Sarah Simeoni, felicemente sposata con il saltatore e tecnico salernitano Erminio Azzaro (ancora attivi nell'atletica) che Livio Berruti che ne fu sempre geloso, precisando anche adesso: io lo facevo per divertimento, lui per agonismo... 
Mennea, dall’inizio alla fine della sua carriera, fu considerato un “personaggio scomodo”, caso non unico nello sport nazionale. La controprova si ha non tanto nel fatto che, dopo la sua lunghissima carriera sportiva, vissuta fra i 200 e i 100 mt più la staffetta, visse passando alla carriera politica (parlamentare europeo) e sfruttando le sue lauree in giurisprudenza e scienze politiche, pur ottenendo una cattedra che aveva a che fare con la cultura sportiva, ma in qualche constatazione finale: a caldo alcuni cronisti lo hanno definito un “maratoneta”. Che lo scambiassero per Dorando Pietri? 
Anche Gelindo Bordin, oro olimpico della Maratona (Seul 1988) in un incontro con chi scrive allo Stadio delle Palme apparve come un uomo piuttosto triste. Ma forse fu un’impressione. 
Chi è “troppo bravo” o rischia di diventarlo è – spesso – nello sport nazionale considerato uno che ….rompe il gioco.
Ma i “peccati” di Pietro Mennea erano più d’uno. Meridionale di Barletta, trapiantato in alternativa non più su dell’Aquila, come studente e poi docente, atleta convinto degli insegnamenti di singoli istruttori: Pietro Mascolo, che fu il suo primo istruttore e gli è rimasto sempre legato, e poi il noto Carlo Vittori, che diede grande impulso a tutta la velocità azzurra. Ambedue ricordano oggi Pietro con grande affetto. Altri difetti: sognare e voler progettare un mondo migliore, una realtà sportiva più giusta e più consona. Niente hai detto. Può un campione ottenere tanto per sé – fra cui l’inestimabile bene della gloria che già il destino, prima della propria volontà e sacrificio toglie ai tanti – ma voler anche incidere sull’ambiente circostante? Le teorie parlano dell’esempio e della voce del campione, ma… 
Ma Pietro non era uomo da accontentarsi di singole manifestazioni d’amicizia e d’affetto. Si accorgeva di come gli si facesse troppo spesso la caccia agli errori. Il tal giornalista lo prendeva di mira e “di punta”. Lui gli dava ...male risposte. Gli hanno dato persino del cretino. Questa è la verità. Il guaio e che chi conosce a fondom lo msport soffre a sentirne parlare con saccenteria da chi ne ha solo un'infarinatura. 
Il motivo di base, ai nostri occhi, è però quello che abbiamo iniziato a delineare prima. Mennea, nella propria purezza d’animo, non si rendeva conto di una verità semplicissima (se la si capisce). Cioè che in Italia, ma forse anche in altre parti del mondo, il valore conta meno dell’appartenenza. 
“Fuori dal palazzo” è la frase che alcuni blog più informati usano per Pietro Mennea. Tale rimase in pratica per tutta la vita, pur essendo visibilmente una persona che molto avrebbe potuto dire per curare i mali storici dello sport italiano. Da qui anche alcune recenti sua affermazioni sul Coni (ma ora si spera in Giovanni Malagò) e sulla Fidal, la federazione di Atletica leggera, che impiega oltre 50 persone, mentre la Jamaica, la più forte del mondo, ne ha meno di 10. Il ricorrente discorso sui dirigenti “sempre gli stessi”: in gran parte quelli dei miei tempi... Ma ancora più sarebbe stato capace di proporre a livello funzionale e di organizzazione. L’Italia nasconde i suoi eroi da vivi e li celebra da morti. Non è la prima volta, non sarà l'ultima purtroppo.
Germano Scargiali

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